giovedì 22 luglio 2010

La fiducia, virtù da pochi per pochissimi

La fiducia è un motore: è una linfa che ti nutre, che ti consente anche di fare, a volte, un passo in più, di esporti un centimetro in più di quello che logica, opportunismo e razionalità consiglierebbero. La fiducia è un sentimento, è la testimonianza del valore reale che si attribuisce a una persona.
La fiducia ha vari livelli e contesti: c’è chi si fida superficialmente, c’è chi la fiducia la ritiene indispensabile componente in ambiti professionali, in quelle circostanze in cui tra due scrivanie deve crearsi una bolla impenetrabile. Stavolta ho visto la bolla non allungarsi fino alla mia scrivania: ho visto, anzi, sentito, qualcuno decidere unilateralmente chi fosse o non fosse meritevole della sua fiducia.
E allora uno si pone delle domande, si chiede se è davvero quello che vuole: e la risposta è che alla fine siamo tutti dei numeri e che la verità è in tasca a chi, per merito, convinzione divina o casualità, ritiene di avere qualche numero in più. Gli altri sono dei numerini da far ballare a destra e sinistra a seconda della loro funzionalità. La squadra, quella che nel calcio si chiude nello spogliatoio ed è lontana parente di quella che esce sul campo, è profondamente diversa. Che amarezza.

1 commento:

  1. Mi hai ricordato un bellissimo editoriale di Massimo Gramellini su La Stampa del 21/6/2010 all'indomani dell'eliminazione dell'Italia dai Mondiali:

    "Mediocrità azzurra specchio del Paese"

    Per paura che lo tolgano ti riporto il testo integrale:

    Fra coloro che ieri davanti alla tv imputavano a Marcello Lippi di aver assemblato la sua mestissima Nazionale privilegiando i sudditi ai condottieri c’erano molti italiani che nella vita di tutti i giorni purtroppo si comportano allo stesso modo.

    Dirigenti d’azienda, titolari di negozi e responsabili di «risorse umane» che sul lavoro privilegiano la fedeltà al talento, l’affidabilità all’estro e il passo del pedone alla mossa del cavallo. Intervistati, risponderebbero anche loro come Lippi: «Non abbiamo lasciato a casa nessun fenomeno». Ma è una bugia autoassolutoria che accomuna quasi tutti coloro che in Italia gestiscono uno spicchio di potere e lo usano per segare qualsiasi albero possa fargli ombra: è così rassicurante passeggiare splendidi e solitari in mezzo ai cespugli, lodandone l’ordine perfetto e la silente graziosità.

    L’abbattimento di ogni personalità dissonante viene chiamato «spirito di squadra».Maè zerbinocrazia. Tutti proni al servizio del capo, è così che si vince. Eppure la storia insegna che il capo viene tradito dai mediocri, mai dai talenti. I quali sono più difficili da gestire, ma se motivati nel modo giusto, metteranno a disposizione del leader la propria energia. La Nazionale di Lippi assomiglia alla Nazione non perché è vecchia, ma perché privilegia, appunto, i mediocri. Averli avuti ieri in panchina, certi vecchi! Contro i goffi neozelandesi sarebbe servito più un quarto d’ora di Totti o di Del Piero che una vita intera di Iaquinta, Pepe e Di Natale, tre bravi figli che, con tutto il rispetto, se hanno giocato anni e anni nell’Udinese, una ragione ci dovrà pur essere. I pochi campioni veri, da Buffon a Pirlo, sono zoppi. Oppure vecchie glorie che si rifiutano di andare in pensione, come l’imbarazzante Cannavaro che ha più o meno l’età di Altafini e forse avrebbe fatto meglio a presentarsi in Sudafrica anche lui nelle vesti di commentatore.

    C’è, naturalmente, anche la questione dei giovani. La follia antistorica di questa Nazionale e di questa Nazione non consiste tanto nel continuare a lasciar fuori i Cassano, ma i Balotelli. Non i talenti troppo a lungo incompresi o compresi solo a metà, ma quelli ancora acerbi che chiedono solo un’occasione per sfondare e, non ricevendola, spesso emigrano in cerca di fortuna. Balotelli è il loro simbolo e non solo per via del colore della pelle, che ne fa l’italiano di domani. Lo è perché a vent’anni ha già vinto Champions e scudetti, e ha un fisico e un talento che ne fanno un predestinato, imparagonabile agli smunti replicanti dell’attacco azzurro. Eppure per lui non si è trovato un posto neppure nel retrobottega. Mi rifiuto di credere che un capufficio dell’esperienza di Lippi non sappia riconoscere la differenza fra un fuoriclasse potenziale come Balotelli e i bravi mestieranti che si è portato appresso. Ma il successo rende sordi al buonsenso. Ci si illude di poter vincere meglio da soli, muovendo pedine inerti sulla scacchiera. Poi quelle pedine si rivelano di burro e alla fine ci si ritrova soli, con un po’ di unto fra le dita.

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